UN "DOLCE" SABATO IN CAMPAGNA.

 Lo conoscevo da diversi anni, ma solo da pochi mesi avevo trovato il coraggio di farmi avanti e dirgli tutto quello che pensavo circa il nostro rapporto, che cioè era errato far vigere tra noi un rapporto paritario di amicizia, poichè io, per nascita, avevo da essergli subalterno e che in virtù di ciò, lui disponeva di un diritto di proprietà assoluto su di me. E che quindi sarebbe stato più corretto un rapporto di suo dominio nei miei confronti. All’inizio si dimostrò abbastanza sbigottito dalle mie affermazioni, e forse anche un po’ spaventato. Ma col tempo se ne convinse ed imparò a mettermi sotto, come gli competeva.

Di solito mi recavo presso il suo studio tre volte la settimana e lì Vito esercitava materialmente il suo diritto di proprietà su di me, concedendomi di essere usato come sguattera, dietro lauta paga da parte mia, ordinavo la scrivania, lustravo il pavimento, pulivo il bagno (la tazza ero tenuto a pulirla solo con la lingua), spolveravo, sbrigavo tutte le faccende che lui disprezzava. E a volte, quando era particolarmente di buon umore, mi concedeva anche umiliazioni più appaganti, a volte senza nessun sovraprezzo, tipo leccargli le scarpe, usare la mia bocca come posacenere o, quando si intratteneva più a lungo per lavoro, mi adoperava come poggiapiedi sotto la scrivania.

Da poco aveva ristrutturato una casa fuori città, in campagna. Così per diversi fine settimana, e a volte anche durante i giorni feriali, prendendo permessi dal lavoro, ero costretto a duri lavori di riattamento della tenuta. Caricare e scaricare travi, pesi d’ogni genere, pulire e ordinare l’interno, sistemare il giardino. Ovviamente Vito non muoveva un dito, anzi, si sedeva su una sdraio sul prato, e con la sua sigaretta tra le dita mi ordinava cosa fare. Se non eseguivo tutto in fretta e alla perfezione non esitava certo a alzarsi dalla sdraio e venirmi a colpire a sangue con un bastone da pastore. A fine giornata, poi, mi presentava il conto dei lavori, ed erano sempre cento due cento mila lire. Tutto questo era per me certamente fonte di gioia e soddisfazione e credevo che quello fosse l’apice del piacere che potessi raggiungere e i milioni sborsati in cambio di tanta clemenza, non pareggiavano minimamente la felicità che tutto ciò mi procurava.

Ma mi sbagliavo.

Un mite sabato di maggio, ero nella tenuta, inginocchiato, nudo come un verme, intento a lustrare il pavimento, quando improvvisamente Vito entrò nel salone e mi colpì con un dolorosissimo calcio nei coglioni. Rimasi tramortito dal dolore qualche istante, ma poi prontamente mi distesi sotto i suoi piedi e iniziai a leccargli le scarpe in segno di sottomissione. Poi Vito, il Padrone, mi ordinò di pulirgli anche la suola sporca di terra e fango e io, ovviamente, dopo averlo ringraziato, obbedii. Avevo già il cazzo in tiro pazzesco e credevo che, per quel giorno la mia dose di piacere fosse terminata. Ma mi tirò un altro violentissimo calcio, questa volta in bocca, facendomi sanguinare e a suon di bastonate mi portò fuori. Io non capivo, ma quando lo vidi spogliarsi fino a rimanere solo in calzini e scarpe, a culo e uccello completamente nudi, cominiciai a realizzare che stesse per succedere qualcosa di grande. Sapeva benissimo, infatti il padrone Vito, che le mie minime difese crollavano miseramente alla vista della sua carne bianca e flaccida e al suo enorme sedere odoroso. E che pur di subirlo così nudo, ero pronto a qualsiasi cosa.

Io ero prostrato completamente sul terreno, con la testa schiacciata sotto il suo piede. Lui, altero e prepotente, con le palle penzolanti e con in mano il bastone da pastore, mi ordinò di mettermi a quattro zampe. Obbedii. Il terreno ghiaioso mi procurava non poco dolore sotto le mani e sulle ginocchia. Vito mi mise un collare e mi trascinò con un guinzaglio verso il praticello. Era davvero di buon umore, quel giorno, infatti decise di deridermi usandomi non per un suo tornaconto materiale, ma solo per puro suo diletto. Mi insultò ripetutamente, colpendomi sempre con il bastone e alla fine concluse che non ero che una capra di merda e che per questo avrei dovuto brucare. E quello sarebbe stato il mio pranzo del giorno. Così fu. A colpi di legnate nei coglioni, dovetti brucare per tutto il praticello, inghiottendo l’erba umidiccia e, di tanto in tanto, belare.

Non era mai arrivato a tanto. Io ero in qualche modo terrorizzato da tutto questo,eppure incredibilmente felice. Sentivo che Vito mi dominava veramente. Mi sentivo assolutamente sottomesso al suo potere.

Brucavo, e con la coda dell’occhio godevo della vista del suo culo enorme e bianchissimo. Avevo il cazzo che mi doleva dall’enorme eccitazione. Arrivato al limite lo implorai di percuotermelo, in modo da scaricarlo un po’. Allora mi fece stendere supino sul terreno, con la testa su di una sua scarpa, mentre con l’altra, posizionata sotto il mio ventre, mi schiacciò l’uccello come fosse un mozzicone di sigaretta.

Mi contorsi dal dolore, ma inevitabilmente venni in maniera enorme.

Finchè realizzai d’avergli sporcato la suola con lo sperma. Sapevo bene quanto Vito fosse infastidito da simili cose, e che di lì a poco mi avrebbe punito severamente. Un brivido di terrore mi percorse. Lo guardai implorante, chiedendogli perdono. Lui non fiatò. Si guardò la suola e si allontanò per un interminabile attimo.

Tornò con un piccolo traino. Mi costrinse a quattro zampre e mi legò ad esso, come fossi un mulo, attaccando le fibbie al collo, ai testicoli e ai capezzoli. Poi , presa un robusta frusta di nervo di bue, montò in sella e iniziò a colpirmi, ordinando di trainare.

Il carro, col peso del padrone, aveva un peso indescrivibile, sicchè i ganci mi straziavano i testicoli e i capezzoli, ma Vito aveva deciso di usarmi come mulo, e non sentiva ragione. Anzi, ad ogni mio lamento, mi colpiva sempre più pesantemente, dandomi anche dei calci, sotto il culo, nei coglioni. Ero veramente stremato, il peso mi stava dilaniando i capezzoli, tanto da non riuscire più a sopportarlo. Per la prima volta, tentai di oppormi e cercai di liberarmi. Ma era troppo tardi. Vito era ormai deciso ad esercitare il suo diritto di proprietà su di me in modo assoluto. Così scese dal traino e mi prese a calci furiosi nelle palle, per la prima volta veramente imbestialito.

Io crollai a terra, quasi svenuto, mentre lui continuava a colpirmi con i tacchetti, anche sul volto. Ero tutto un cumulo di lividi e dolori. Ma vedendo tutta quella carne bianca e tutto quel culo enorme e odoroso sopra di me, compresi d’aver sbagliato: come avevo potuto, io misero schiavo, anteporre i miei bisogni alla volontà del mio padrone? Sotto le sue percosse, implorai, in lacrime, perdono, giurando che non sarebbe più accaduto e supplicandolo di fustigarmi maggiormente affinchè la lezione mi fosse ben chiara. Magnanimamente Vito smise di prendermi a calci e, con una dolcezza indescrivibile, mi permise di pulirgli i tacchetti sporchi del sangue delle mie ferite, con la lingua. 

Ovviamente fu un onore enorme per me, e stentavo a credere che il padrone non solo mi avesse già perdonanato per l’inammissibile comportamento, ma che addirittura mi concedesse un simile privilegio. Eppure non era finita qui, poichè oltre a questo, il padrone, nella sua infinita clemenza, mi permise di riprendere a godere del suo peso, riusandomi come mulo, aggiungendo però, stavolta, al solito giogo, anche dei pesi di piombo infilati nei capezzoli e nei testicoli, al fine di sformarmi completamente dal dolore. 

Ripresi così a trascinare tutto il giogo e a brucare come una capra, trattenendo a stento le lacrime dal dolore, mentre la frusta di nervo di bue, implacabile, impersava sulla mia pelle ormai sfigurata, ringraziando il padrone per una giornata così memorabile.

 

 

 
 
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